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iramo e Tisbe, il rosso dell'amore e del sangue che tinge i gelsi
Ovidio nelle "Metamorfosi",
seguito da tanti altri autori, ha cantato la storia di questi due
sfortunati innamorati. Piramo e Tisbe
sono due giovani che hanno reso
immortale il loro Amore, sia pur trasposta dall'elemento divino in una
pianta. I
diversi scrittori-artisti hanno dato sfumature differenti all'antica
leggenda ambientandola dall'antica Babilonia alla Grecia, fino alla
stessa Sicilia. Il legame con l'Isola in quanto è una leggenda che può
essere definita mediterranea e anche per il forte legame delle campagne
siciliane col Gelso che è uno dei simboli maggiori di questa antica
storia.
Comunque,
rendetevi conto che gustando un gelso nero o sorbendone una granita,
state assaporando gli ultimi atti di un immenso e antico amore senza
fine.
Piramo e Tisbe, due cuori palpitanti, l'amore contrastato, un leone, il sangue rosso e il Gelso,
pianta consacrata a Pan e i cui dolcissimi frutti cambiarono
colore virando dal bianco al vermiglio impregnandosi della passione dei
due e rendendosi testimoni nei secoli di questa vicenda tra l'umano e
il divino.
Ecco iniziare la storia
Piramo, uno tra i più splendidi e forti ragazzi, e Tisbe, fanciulla dolcissima, bella senza pari, da tutti desiderata.
Portiamo
al presente il fatto, come se stesse accadendo adesso, in questi
giorni, un amore contrastato, un po' fuori dai tempi attuali nelle sue
modalità, è vero, eppure ancora accade.
I
due si amano follemente, ma questo è proprio il nodo principale che
tira i fili di questa storia trascinandola nel vortice della tragedia.
Piramo e Tisbe si amano, ma i genitori sono del tutto contrari alla loro unione, inconsapevoli i padri e le madri che con le loro azioni daranno l'avvio alla fine dei due giovani.
Il
caso vuole che le abitazioni dell'uno e dell'altra siano contigue. Si
conobbero presto i ragazzi, la loro reciproca frequentazione ha fatto
crescere la passione e l'amore vero, puro. Tutto è è avvenuto e cresce
ancora contro il volere dei reciproci genitori.
I giovani hanno sempre cercato di mantenere tutto occultato,
sguardi furtivi, gesti accennati o nascosti, ma questo modo di vivere
il rapporto non ha fatto altro che rinfocolare il sentimento e il
desiderio.
Ormai sono sbocciati, i due ragazzi vedono il loro futuro solo se vissuto insieme.
Per
questo motivo i genitori non sanno come fare, hanno altri progetti, i
due insieme non potranno stare, non potranno sposarsi, dovranno essere
tenuti separati in maniera assoluta. Così decidono di agire.
Ognuna delle due famiglie segrega a casa il proprio figlio,
i due giovani non potranno più uscire. Soluzione impietosa.
Immaginatevi Piramo e Tisbe consapevoli del fatto che il proprio amato,
che la propria amata, si trova al di là di un muro, a pochi centimetri
e non poterlo raggiungere.
Una vera tortura.
Ma nel muro che li tiene distanti eppure così vicini, c'è un difetto, una fessura. Da quella piccola via di comunicazione tra le case, i due riescono a parlarsi.
Dalle Metamorfosi di Ovidio, Publio Ovidio Nasone - Metamorfosi, IV, vv. 55-166:
«Quel difetto, ignoto a tutti per centinaia d'anni (cosa mai
non scopre l'amore?), voi, innamorati, per primi lo scorgeste
e l'usaste come via per parlarvi: di lì ben protette
passavano giorno per giorno in un sussurro le vostre effusioni.
Spesso, immobili, Tisbe da una parte, Pìramo dall'altra,
dopo aver spiato a vicenda i propri aneliti:
"Muro invidioso", dicevano, "perché ti frapponi al nostro amore?
Quanto ti costerebbe lasciarci unire con tutto il corpo
o, se questo è troppo, aprirti perché potessimo baciarci?
Non siamo degli ingrati: sappiamo di doverti già molto,
se a orecchie amiche permetti che giungano le nostre voci".
Pronunciate invano, l'uno dall'altra divisi, queste parole,
a notte si salutarono e ognuno alla sua parte
di muro impresse baci senza speranza che s'incontrassero».
Un
giorno però ecco l'opportunità di fuggire, un progetto può prendere
corpo consentendo a Piramo e Tisbe di andare via per vivere il loro
amore in tutta libertà.
É bene ridare parola alla traduzione e trasposizione dalle Metamorfosi:
«L'aurora seguente aveva rimosso i fuochi della notte,
il sole sciolto coi suoi raggi la brina nei prati e loro
si ritrovarono in quel luogo. Con lieve bisbiglio allora,
dopo essersi a lungo lamentati, decisero di eludere
i custodi, di tentare la fuga nel silenzio della notte
e, una volta fuori casa, lasciare la stessa città;
ma per non smarrirsi, vagando in aperta campagna, stabilirono
d'incontrarsi al sepolcro di Nino e di nascondersi al buio
sotto un albero: quello che imbiancato di bacche lì si trovava,
un alto gelso appunto, vicino a una gelida sorgente.
Questo l'accordo; e la luce, che sembrava non volersene andare,
calò a un tratto nel mare e da quel mare si levò la notte».
Ed ecco la fuga e la speranza di potersi amare finalmente liberi:
«Di soppiatto aprendo la porta, Tisbe uscì, senza farsi sentire
dai suoi, nelle tenebre e, col volto velato,
giunta al sepolcro, sedette sotto l'albero convenuto:
audace la rendeva amore. Quand'ecco che, con le fauci
schiumanti sangue per la strage di un armento, venne a spegnere
la sete sua nella fonte accanto una leonessa.
Di lontano ai raggi della luna la vide Tisbe
e con le gambe tremanti corse a rifugiarsi in un antro oscuro,
ma nel fuggire lasciò cadere per l'ansia il velo dalle spalle.
La belva feroce, placata a furia d'acqua la sua sete,
mentre tornava nel bosco, trovò per caso abbandonato a terra
quel velo delicato e lo stracciò con le fauci sporche di sangue.
L'equivoco e la tragedia prendono forma piena... e i frutti del gelso da bianchi divengono rosso cupo:
«Uscito più tardi, Pìramo scorse in mezzo all'alta polvere
le orme inconfondibili di una belva e terreo
si fece in volto. Quando poi trovò la veste macchiata di sangue:
"Una, una sola notte", gridò, "manderà a morte due innamorati.
Di noi era lei la più degna di vivere a lungo;
colpevole è l'anima mia. Io, sventurata, io ti ho ucciso,
io che ti ho spinto a venire di notte in luoghi così malsicuri,
e neppure vi venni per primo. Dilaniate il mio corpo,
divorate con morsi feroci quest'uomo scellerato
voi, voi leoni, che vi rintanate sotto queste rupi!
Ma è da vili chiedere la morte". Raccolse il velo
di Tisbe e lo portò con sé al riparo dell'albero convenuto;
poi, dopo avere intriso di lacrime e baci quella cara veste:
"Imbeviti ora", esclamò, "anche di un fiotto del sangue mio!".
E si piantò nel ventre il pugnale che aveva al fianco,
poi, ormai morente, fulmineo lo trasse dalla ferita aperta
e cadde a terra supino. Schizza alle stelle il sangue,
come accade se, logoratosi il piombo, un tubo si fende
e da un foro sottile sibilando esce un lungo getto
d'acqua, che sferza l'aria con la sua violenza.
I frutti dell'albero, spruzzati di sangue,
divengono cupi e, di sangue intrisa, la radice
tinge di vermiglio i grappoli delle bacche.
Ed ecco che, ancora impaurita, per non deludere l'amato,
lei ritorna e con gli occhi e il cuore cerca il giovane,
impaziente di narrargli a quanti pericoli è sfuggita.
Ma se riconosce il luogo e la forma della pianta,
la rende incerta il colore dei frutti: in forse se sia quella.
Ancora in dubbio, vede un corpo agonizzante che palpita a terra
in mezzo al sangue; arretra e, col volto più pallido del legno
di bosso, rabbrividisce come s'increspa il mare,
se una brezza leggera ne sfiora la superficie.
Ma dopo un attimo, quando in lui riconosce il suo amore,
in pianto disperato si percuote le membra innocenti,
si strappa i capelli abbracciata al corpo dell'amato,
colma la ferita di lacrime, confonde il pianto
col sangue suo e, imprimendo baci su quel volto gelido,
grida: "Quale sventura, quale, Pìramo, a me ti ha strappato?
Pìramo, rispondi! Tisbe, è la tua amatissima Tisbe
che ti chiama. Ascoltami, solleva questo tuo volto inerte!".
Al nome di Tisbe Pìramo levò gli occhi ormai appesantiti
dalla morte e, come l'ebbe vista, per sempre li richiuse.
Solo allora lei riconobbe la sua veste e scorse il fodero
d'avorio privo del pugnale: "La tua, la tua mano e il tuo amore
ti hanno perso, infelice! Ma per questo anch'io ho mano ferma,"
disse, "e ho il mio amore: mi darà lui la forza d'uccidermi.
Nell'oblio ti seguirò; si dirà che per sciagura fui io causa
e compagna della tua fine. Solo dalla morte, ahimè, potevi
essermi strappato, ma neanche da quella potrai esserlo ora.
Pur travolti dal dolore esaudite almeno, voi che genitori
siete d'entrambi, la preghiera che insieme vi rivolgiamo:
non proibite che nello stesso sepolcro vengano composte
le salme di chi un amore autentico e l'ora estrema unì.
E tu, albero che ora copri coi tuoi rami il corpo sventurato
d'uno solo di noi e presto coprirai quelli di entrambi,
serba un segno di questo sacrificio e mantieni i tuoi frutti
sempre parati a lutto in memoria del nostro sangue!"
Questo disse, e rivolto il pugnale sotto il suo petto,
si lasciò cadere sulla lama ancora calda di sangue.
E almeno la preghiera commosse gli dei, commosse i genitori:
per questo il colore delle bacche, quando sono mature, è nero
e ciò che resta del rogo in un'urna unica riposa».
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